L’etica del commiato
Spesso mi sono domandata, e in questi ultimi tempi più spesso, che cosa prova e soprattutto che cosa si aspetta un docente nel momento in cui alla fine della propria attività si accinge ad abbandonare il ruolo che fino ad al- lora aveva ricoperto e magari anche con qualche gratificazione professionale.
Una considerazione che in prima battuta potrebbe apparire banale, se solo si considera che quello del pensionamento è un traguardo ineluttabile. Per noi docenti è comunque un privilegio e tanto più contradditorio se si pensa che la moltitudine di professionisti che la scuola – noi – immette sul mercato potrà godere in misura irrisoria di questa sorte benevola, perché pochi forse avranno la fortuna di sfuggire alla maledizione del precariato. Ma, lasciando a latere queste pur doverose considerazioni economiche e ritornando al nostro tema, non ci si può sottrarre ad alcuni interrogativi. Quale il bilancio di una vita in qualche misura dedicata agli altri? Quale il senso della professione docente oggi? Come viene percepita e come ce la rappresentiamo noi? Do- mande.
Sono domande che ci portano a riflettere su un tema più ampio e che qui vorrei proporre come capitolo di una pedagogia del lavoro dal titolo etica del commiato.
Questa definizione aiuta a tenere a bada una tentazione retorica inevitabile in circostanze come queste. Se andare in pensione è un po’ come morire, lo è completamente per il modo
Spesso mi sono domandata, e in questi ultimi tempi più spesso, che cosa prova e soprattutto che cosa si aspetta un docente nel momento in cui alla fine della propria attività si accinge ad abbandonare il ruolo che fino ad al- lora aveva ricoperto e magari anche con qualche gratificazione professionale.
Una considerazione che in prima battuta potrebbe apparire banale, se solo si considera che quello del pensionamento è un traguardo ineluttabile. Per noi docenti è comunque un privilegio e tanto più contradditorio se si pensa che la moltitudine di professionisti che la scuola – noi – immette sul mercato potrà godere in misura irrisoria di questa sorte benevola, perché pochi forse avranno la fortuna di sfuggire alla maledizione del precariato. Ma, lasciando a latere queste pur doverose considerazioni economiche e ritornando al nostro tema, non ci si può sottrarre ad alcuni interrogativi. Quale il bilancio di una vita in qualche misura dedicata agli altri? Quale il senso della professione docente oggi? Come viene percepita e come ce la rappresentiamo noi? Do- mande.
Sono domande che ci portano a riflettere su un tema più ampio e che qui vorrei proporre come capitolo di una pedagogia del lavoro dal titolo etica del commiato.
Questa definizione aiuta a tenere a bada una tentazione retorica inevitabile in circostanze come queste. Se andare in pensione è un po’ come morire, lo è completamente per il modo
in cui si celebra questo traguardo, indulgendo oltre misura sui demeriti
per esaltare solo i meriti del – si dice
– fortunato collega che non più compresso dal lavoro guadagna finalmente, secondo l’analisi marxiana ancora prevalente, la propria libertà. Per
uscire da questa ipocrisia istituzionale è sufficiente attenersi al terreno
meno solido, ma più affine alla nostra
formazione professionale, dei sentimenti.
Con poche eccezioni, il momento del congedo per noi docenti è un po’ più malinconico rispetto agli altri. Difficile sottrarsi, per un verso, al senso di vertigine pensando al tempo trascorso tra i banchi, alle migliaia di studenti incontrati, ai corsi, agli esami, ai colleghi, ai convegni, ai concorsi; per altro verso, alla consapevolezza di essere impegnati in un’interminabile corsa a ostacoli con il tempo tiranno che mentre ti attira sempre più verso nuovi obiettivi, ti concede sempre meno tempo per raggiungerli. Chi, come un professore di scuola, è abituato non solo a insegnare, ma prima di tutto a imparare, non finisce mai di provare interesse per nuove competenze che, in un campo come la docenza, fanno tutt’uno con la ricerca. Forse avviene anche in altri ambiti, ma sono indotta a pensare che chi si è lasciato prendere da questa professione, sempre sensibile alle sfide del/nel sapere, non finirà mai la sua corsa contro il tempo. Una frase di Karl Jaspers, pronunciata alla fine della carriera – «Ed ora che si potrebbe ricominciare, bisogna andarsene!» – dà la misura come poche altre del vissuto di limitatezza e impotenza che connota il momento
Con poche eccezioni, il momento del congedo per noi docenti è un po’ più malinconico rispetto agli altri. Difficile sottrarsi, per un verso, al senso di vertigine pensando al tempo trascorso tra i banchi, alle migliaia di studenti incontrati, ai corsi, agli esami, ai colleghi, ai convegni, ai concorsi; per altro verso, alla consapevolezza di essere impegnati in un’interminabile corsa a ostacoli con il tempo tiranno che mentre ti attira sempre più verso nuovi obiettivi, ti concede sempre meno tempo per raggiungerli. Chi, come un professore di scuola, è abituato non solo a insegnare, ma prima di tutto a imparare, non finisce mai di provare interesse per nuove competenze che, in un campo come la docenza, fanno tutt’uno con la ricerca. Forse avviene anche in altri ambiti, ma sono indotta a pensare che chi si è lasciato prendere da questa professione, sempre sensibile alle sfide del/nel sapere, non finirà mai la sua corsa contro il tempo. Una frase di Karl Jaspers, pronunciata alla fine della carriera – «Ed ora che si potrebbe ricominciare, bisogna andarsene!» – dà la misura come poche altre del vissuto di limitatezza e impotenza che connota il momento
della fine di una carriera nonostante le
illusioni di continuità. E qui, in questo vissuto ambivalente, può radicarsi
un’etica del commiato, il solo mezzo
per strappare alla retorica un momento importante nella vita di una
persona cui vanno restituiti autenticità
e significato. Questa è anche l’unica
forma, non più diretta bensì indiretta,
attraverso cui un docente può continuare a insegnare.
Carla Xodo Università di Padova
Carla Xodo Università di Padova